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| Ho appena finito di leggere tutti i vostri commenti, ben 32 pagine... mi è pure venuto mal di testa. M sono piaciuti molto i commenti di Brandamante_, che a quanto pare è un utente cancellato. Peccato, volevo ringraziarla e leggendo i suoi commenti ho risolto un dubbio che mi attanagliava sul titolo. Ora ri-posto nuovamente due suoi post finali, è molto interessante e vale la pena spendere due minuti a leggerlo. Ad ogni modo, mi sono talmente innamorata di questo drama che faccio addirittura anche dei sogni... CITAZIONE (Bradamante_ @ 18/9/2007, 15:34) Non c'è una sola parola che io non condivida. Abbiamo sempre, per così dire, viaggiato sulla stessa lunghezza d'onda, inoltrandoci, lei in inglese ed io in italiano, sui territori della riflessione andando oltre il significato denotativo dell'intreccio. Mi verrebbe voglia di scriverle una mail e di farle i miei complimenti, manifestandole il mio apprezzamento per lo spessore del suo pensiero. Un giorno, se troverò il coraggio, lo farò. Concentrandomi sulle sue parole ed esprimendo la mia opinione personale, posso dire che è vero, quel finale non tradisce il senso del titolo, nè l'indirizzo che gli autori volevano dare a questa storia. Non era possibile non mostrare Soo Hyun imprigionato nel suo ruolo di agente sotto copertura, come non potevano alleggerire la sua posizione morale dallo stato di colpevolezza, morale e non della legge degli uomini (saturn, anche lei del gruppo WITH S2, sul Soompi, aveva delineato per brevi accenni questo discorso). E' colpevole verso se stesso, ma soprattutto verso gli altri, per aver perseguito in modo dissennato una vendetta dagli esiti tragici, drammatici, che ha disseminato lutti e spargimenti di sangue. Com'è possibile, com'è tollerabile guardarsi allo specchio e vedere il lupo che è stato capace di tanta efferattezza senza che ci sia un giudizio, una condanna? Come potevano gli autori mostrarci Ji Woo tra le sue braccia come se nulla fosse accaduto? Non ho motivi di acredine per chi lamenta lo scarso romanticismo dell'intreccio, ma vorrei che queste persone facessero un piccolo sforzo nella comprensione di quella scena finale con Soo Hyun davanti al tramonto infuocato di una baia lontana dalla sua patria. Quello spazio, quella visuale, quella solitudine, è la metafora della sua situazione interiore, cioè quella di un uomo profondamente consapevole della tragicità del suo passato che guardandosi dentro vede la sua anima raminga che continua, e continuerà a confrontarsi fino all'ultimo dei suoi respiri, con il dilemma e l'incertezza della scelta dei suoi percorsi umani, perchè il cane e il lupo, specie quest'ultimo, rimarranno a contatto del suo essere per sempre. E' meno tormentato Soo Hyun, forse più sereno, ma sa che l'esilio era l'unica soluzione delle soluzioni possibili (Min Ki ci lascia intendere che è lui a volere una vita ai margini, costantemente in pericolo) e che il rapporto con Ji Woo avrebbe avuto una chance soltanto a patto che lui fosse stato disposto a fare un passo indietro rispetto alle sciagurate decisioni degli anni passati. Non cerca la morte, come fece quando ritrovò la sua memoria e vide le sue mani lorde di sangue, anche di quello paterno, arrivando sulla soglia della follia distruttiva. La osserva negli occhi, la lambisce, la rifugge. Continuerà ad osservare l'orizzonte e a domandarsi se il bene e il male possano scindersi dall'ambiguità della fallacità dello sguardo umano, dal furore degli impeti passionali. Quel titolo, "Il tempo del cane e del lupo", ha marchiato a fuoco la sua anima e quelle degli altri personaggi. Nessuno di loro perviene ad una risposta definitiva ed esauriente, tutti provano lo stesso disorientamento, la stessa incapacità di lettura di fronte al "tempo sconosciuto", tutti affrontano il loro tempo mortale accettando il peso della colpa delle meschinità umane o l'elevazione del riscatto morale. Per alcuni, Byun ad esempio, diventa il riscatto dall'oblio morale, una presa di coscienza che lo restituisce alla dignità umana (la sua morte in nome di un debito da saldare nei confronti di Soo Hyun, lo rende umanissimo nella sua parabola discendente. Quando l'ho visto morire non ho potuto trattenere la commozione..... Mi consola che non sia morto solo, il modo peggiore di congedarsi dall'esistenza, e che aver dato la sua vita per Soo Hyun gli abbia reso il trapasso meno amaro). Per altri, vedi Jung, l'anima nera, il vero criminale, l'assassino, la vera punizione è la vita come castigo, una vita che ti sottrae tutto il potere temporale, il potere di vita e di morte sulle identità perdute, una vita che ti chiede conto dei misfatti commessi. Sarebbe stato troppo facile per lui morire di fronte all'orrore delle morti sulla sua coscienza. Non merita di vivere dopo le atrocità compiute, però vivrà per ricordare. Il finale, come lo è stato per thunderbolt, è stato per me perfetto. L'ho visto, rivisto, masticato e continuo a riviverlo nella mia mente sentendo con dispiacere che questa storia e suoi personaggi mi mancheranno. I non detto sono calibrati almeno quanto le risposte esplicite e non si sente la necessità, paventata da alcuni appassionati, di un sequel. Va bene così, aggiungere altro guasterebbe la ricchezza emotiva, quel riflettere sulla condizione della natura umana che questo drama ci ha regalato. Mutuando dai lungometraggi d'azione, in primis facendo propria la lezione del maestro John Woo, questa produzione ha dato corpo a uno stile improprio per i k-drama e ha diretto il ritmo della trama verso una progressione della tensione nervosa prossima all'esplosione definitiva. Ripeto, va bene così. Fine dello sproloquio. E' strano, ma le parole di questa ragazza, spero di non aver sbagliato sesso, hanno il potere di stimolare la mia scarsa propensione alla scrittura. Come al solito, parto dalle sue osservazioni e cercherò di esprimere il mio pensiero evitando di ripetere concetti già detti l'ultima volta. Anch'io, sono rimasta molto colpita dalla serenità interiore di Ji Woo, una dura conquista dopo tante tribolazioni, e dalla forza di questo sentimento d'amore capace di indurla a comprendere i travagli interiori del compagno ancora alla ricerca di se stesso, continuamente in viaggio, una bella metafora che va dal letterario allo spirituale fino agli spostamenti "materiali", fisici. Della citazione dal romanzo La storia infinita non mi ero resa conto, anche se quando tradussi le parole in inglese di coolsmurf, penso tradotte a loro volta dai sub cinesi, intravidi una luce particolare nel senso di quella frase, soprattutto rivolgendola verso l'esistenza di Soo Hyun. Se noi leggiamo la trama del libro ben comprendiamo, il perchè di quella citazione da parte degli autori: il tema dell'incomunicabilità, Soo Hyun conduce una vita serena nonostante il sua triste infanzia, però non riesce a comunicare ai suoi affetti più cari, il padre, la madre e il fratello, il disagio e la sofferenza per il trauma della morte della madre, tiene dentro di sè il dolore che si presenta puntualmente attraverso la fase onirica notturna, per poi doverlo affrontare, in tutta la sua spietatezza, nell'incontro della vita con Mao; il tema dell'imprigionamento nella descrizione di una vendetta ineludibile, violentemente ancorata allo stato di sofferenza emotivo di Soo Hyun che finisce per secolarizzarlo in una gabbia senza uscite, la finzione di Kay, portandolo attraverso tragici eventi alla continua ricerca della sua volontà e quindi, di se stesso. Si perde, la memoria lo abbandona, costruisce una nuova personalità vivendo una nuova vita, qui il confine tra realtà e finzione risulta annullato, perchè Kay fagocita l'anima di Soo Hyun, anzi si annulla, per poi ritrovarsi sempre imprigionato nella stessa gabbia di partenza, la vendetta. Questa disquisizione letteraria mi è servita per dimostrare come Han Ji Hoon e Yoo Young Jae siano riusciti ad attingere in modo significativo al testo di Ende, e non solo, facendo proprie, ma qui mi arrampico un pochino sugli specchi, alcune suggestioni nell'utilizzo dello spazio-tempo nell'intreccio del drama. I salti temporali, quell'analessi e quella prolessi continua che hanno influito anche sul ritmo del racconto, parecchio sostenuto, specie da metà in poi, quando il tempo è tornato al presente dopo il flashback iniziale, ma potrebbe non essere intenso in quel senso, cioè non è detto che il protagonista dopo l'inabissamento abbia avuto un momento retrospettivo del passato, potrebbe essere stato un semplice artificio degli autori per spiegare chi era il protagonista e quale fosse stata la sua vita. Insomma, il punto del mio discorso è che mi sono arrovellata il cervello a cercare i riferimenti cinematografici con i film d'azione di Hong Kong e invece le risposte del processo creativo di Time Of Dog And Wolf risiedevano nel romanzo di Ende. Comunque, non disperdo al vento il discorso accennato in precedenza sui film Infernal Affairs (2002), The Bourne Identity (2002) e Face/Off (1997), perchè mutuando da quelle storie e da quei linguaggi, la regia del signor Kim è debitrice soprattutto del maestro John Woo anche se non ha il coraggio di inoltrarsi nei territori pericolosi dello slow motion, salta fuori la ragione della novità di Time Of Dog And Wolf nel panorama dei k-drama. Partendo dalle implicazioni visive e filosofiche del modo di dire francese il entre di heure chien et il loup, Han Ji Hoon e Yoo Young Jae prendono per mano i due stereotipi più abusati dai drama coreani, la vendetta e la perdita di memoria, e mettono in atto su di essi un percorso di vita, più percorsi esistenziali che mirano a mostrare una dimensione spirituale umana che mette al centro il dubbio, il disorientamento verso le false certezze, la crudeltà delle meschinità e delle miserie umane. L'effetto finale, costruito grazie a una scrittura che privilegia una forte caratterizzazione psicologica dei personaggi, è dirrompente, perchè si ha la consapevolezza che il confronto quotidiano con se stessi e con l'altro da sè è condizionato da una visuale ambigua, in chiaro-scuro, verso il mondo dei valori morali universalmente condivisi. L'eclissi dell'abominio coincide con l'alba della speranza nella vita di ognuno dove, a volte, ci viene concesso il lusso di trarne le fila. Quel duello finale tra Mao e Soo Hyun (una scena strepitosa, girata ed interpretata in modo divino da Junki e da Choi Jae Sung) non è forse l'estrema sintesi di tutto questo mio discorso? L'indistinto come una persecuzione, il legame mortale tra il bene e il male non è ben reso dalle quelle mani unite di due corpi riversi sul pavimento di un capannone? Sembrava tutto definito all'inizio, la vendetta, il colpevole, i buoni e poi, tutto si è spento in quel senso di smarrimento di Mao di fronte alla rivelazione dell'orologio del suo miglior amico, quello ucciso per sua mano, il padre di Soo Hyun. Abbassa la pistola e lascia che l'arma dell'antico rivale, il suo figlio putativo, possa trafiggerlo (ma poi, sarà lui a uccidersi), ma non prima di aver reclamato il suo ruolo di padre, perchè nonostante tutto l'odio e il rancore di Soo Hyun, lui si era sentito padre, padre per davvero. Una volta gli disse che "loro due erano una cosa sola" e il tradimento consumato per mano di quella maledetta chiavetta USB, rivela il dolore di un uomo colpevole di essere un criminale, ma, umanamente parlando, è anche maschera tragica di una vita consumata dall'abbandono, Mao era un orfano cresciuto senza legami affettivi, dal desiderio frustrato di formarsi una propria famiglia, le sue donne lo lasciano e lo respingono, dalle catene della colpa di una coscienza attiva, conosce il valore della vita e della morte, ma è inerte, quasi incapace davanti a delle scelte radicali, il cambiamento del proprio modo di vivere, ad esempio. Si uccide, non prima di aver chiesto ”Qual è il tuo nome?”, e di fronte al diniego, dice ”Non importa, tu sei Kay, mio figlio”, lasciando la verità in quelle foto ingiallite dal tempo, lui e Dong Jo, lui e le sue donne e in quel grido disperato di Soo Hyun. Le due mani intrecciate, passato e presente che si ricongiungono dopo tanti silenzi e tanto dolore. Il futuro? Un tramonto infuocato dove sperdersi per poi ritrovarsi, forse.
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